07 ottobre, 2007

Và via, psicologia


Dopo aver allentato i legami sociali e i vincoli affettivi per l'esasperato individualismo ed egoismo che si va diffondendo nella nostra cultura, oggi incominciamo a pagarne i costi in termini di tragedie umane e di inutile dispendio economico.

Se una mamma non ce la fa più a seguire i suoi bambini nel chiuso di un appartamento, dove il vicino è uno sconosciuto, in quella solitudine che le sequestra e le aliena il suo corpo, il suo tempo, il suo spazio, il suo sonno, la sua vita sociale, e a un certo punto arriva, se non ad ammazzare il figlio, a crescerlo con aggressività o profonda stanchezza e demotivazione, invece di creare strutture educative, nidi, asili, scuole a tempo pieno, le si appioppa una diagnosi di "depressione" e la si manda da uno psicoterapeuta cui versa l'equivalente in denaro della retta di una struttura educativa, che consentirebbe al figlio di crescere bene socializzando, e alla madre di non perdere la stima di sè.

Ho letto recentemente sul "Daily Telegraph" che in America l'80 per cento della popolazione usufruisce di cure psicoterapeutiche (contro il 14 per cento negli anni '60) mentre il sociologo John Nolan, nel suo recente libro The Therapeutic State, ci informa che: "Negli Stati Uniti ci sono più psicoterapeuti che librai, pompieri, postini, e addirittura due volte più che dentisti e farmacisti. Gli psicologi sono battuti numericamente solo dai poliziotti e dagli avvocati".

Società d'avanguardia come Whitbread Cable and Wireless hanno inserito l'offerta terapeutica nel contratto dei dipendenti, mentre altre forniscono ai propri licenziati assistenza psicologica, quando invece costoro avrebbero bisogno semplicemente di un nuovo posto di lavoro.

Che significa tutto questo? Che le carenze oggettive (come quelle di spazi ricreativi per i bambini, di possibilità occupazionali per i carcerati, di un pò di tempo libero per le madri relegate in casa, di nuovi lavori per i cassintegrati e i licenziati) non sono più percepite come problemi cui dare risposta sul piano della realtà, ma, per le conseguenze dolorose che determinano, sono lette come disagi psichici da affidare alle cure degli psicoterapeuti o degli psichiatri.

In questo modo si diffonde un'"etica terapeutica" che promuove non tanto l'autorealizzazione degli individui, quanto la loro autolimitazione, perchè, postulando un sè fragile, debole e in ogni suo aspetto vulnerabile, favorisce la gestione delle esistenze e delle singole soggettività. Queste, a poco a poco, si persuadono che i loro problemi non sono reali, e tali da poter trovare una soluzione in una diversa organizzazione della società, ma sono psicologici, e quindi da risolvere nel chiuso della loro soggettività.

Il risultato è che i legami sociali, dove queste difficoltà potrebbero trovare soluzione, non vengono neppure presi in considerazione e, con una lettura perversa che induce a considerare le conseguenze dolorose di un disagio reale come problemi psichici dell'individuo, si favorisce la frammentazione sociale dei singoli, sempre più isolati e chiusi nelle loro problematiche, da oggettive a soggettive, attraverso un tortuoso percorso che non porta alla guarigione ma all'alienazione.

Infatti, una volta persuaso di avere un sè fragile e vulnerabile, quindi bisognoso di un supporto, l'individuo finisce con il desiderare l'autorità terapeutica, che agisce in base alla premessa di essere la sola a sapere quali sono i suoi problemi e come si possono risolvere. Il vissuto di dipendenza che così si diffonde crea una società acquiescente e conformista: quanto di più desiderabile possa attendersi chi esercita il potere.

Che sia questo lo scopo finale cui tende questa impropria diffusione dell'etica terapeutica? Io penso di sì. Non basta infatti il "pensiero unico". E cosa, meglio dell'intervento psicoterapeutico, è capace di persuadere che, siccome la società non si può cambiare, come recita quel pessimo vangelo che porta il nome di "sano realismo", a cambiare devi essere tu, con il sacrificio delle tue aspirazioni e dei tuoi desideri di autorealizzazione, perchè più sei conforme e meno sei individuato, tutto funziona meglio, e non occorre investire per promuovere quelle strutture che favorirebbero la tua autorealizzazione, di cui nessuno ne sente la necessità?

Ma c'è davvero un futuro per società conformi e omologate che si dicono "libere", mentre all'autorealizzazione degli individui preferiscono la loro autolimitazione? Io penso di no.


da La Repubblica delle donne, 02/07/05

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